Mosè afghano

 

Vorrei portare in evidenza questo articolo di don Luigi Maria Epicoco, come occasione di riflessione. L’immagine di un volo dei nostri militari che soccorrono la popolazione imbarcando sui nostri aerei il popolo Afghano, ci commuove così come molti altri scatti hanno scosso l’opinione pubblica, possano le parole di don Luigi aprirci il cuore e orientare il nostro impegno e la nostra sensibilità a non giudicare, ma ad impegnarci a costruire sempre la pace anche in frangenti come questi.

“Per quanto ci affanniamo con le parole a raccontare i fatti, ci sono immagini che sanno rendere l’idea meglio di mille parole. È quello che sta accadendo in Afghanistan in questi giorni. Il dramma e il dolore è reso più eloquente dalle immagini che dalle mille analisi socio-politiche di cui sovrabbondano i media e i dibattiti pubblici di questi giorni. Tra queste immagini ce ne sono due che hanno toccato la coscienza di molti: una madre che spinge il proprio figlio al di là del filo spinato, e un padre che solleva il proprio bambino per consegnarlo a un soldato dall’altra parte della barricata. Cosa può spingere un genitore a fare qualcosa di così drammatico, di così doloroso? Torna alla mente il gesto di Iochebed, madre di Mosè, che spinta dalla medesima disperazione spinge il proprio figlio nelle acque del Nilo nell’estremo tentativo di salvarlo. Lo abbandona perché si salvi. Il cortocircuito emotivo è proprio nella contrapposizione di queste due parole: abbandono e salvezza. Credo che solo un genitore possa capire fino in fondo il dolore di un gesto simile. Eppure nella tragedia di quel distacco c’è una dichiarazione di amore: sono disposto a lasciarti affinché tu possa vivere. Troppo velocemente nel testo biblico spostiamo il nostro sguardo sulle gesta di Mosè, ma credo che dovremmo trovare il coraggio di sostare davanti alle acque del Nilo che portano via la cesta con dentro il bambino, mentre la sorella Miriam tenta di vedere che fine farà il proprio fratello.

Prima o poi nella vita, in ogni relazione di bene, bisogna che si arrivi alla maturità di un simile distacco: lasciare andare affinché la vita divenga possibile. Ma come per Mosè e come per i figli afghani, questo gesto non è la celebrazione di un distacco frutto di maturazione, ma un distacco traumatico frutto di violenza e sopruso. Nella nostra impotenza potremmo però diventare come Miriam e sentire la responsabilità di continuare a tenere lo sguardo su questi figli per vedere cosa ne sarà di loro, e cercare, come ella ha fatto, di trovare un modo affinché possa riaccadere un ricongiungimento necessario.

Qualcosa di simile è raccontato nel romanzo La strada di Cormac McCarthy. In un’atmosfera apocalittica un padre e un figlio tentano di salvarsi la vita mettendosi a fare un viaggio di cui sanno ben poco. Ma alla fine il padre non ce la fa, sente che è alla fine e spinge suo figlio a non arrendersi, a proseguire, ad andare avanti anche senza di lui: «L’uomo gli prese la mano, ansimando. Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare.  (…) Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa’ tutto come lo facevamo insieme. (…) Voglio restare con te. Non puoi. Ti prego. Non puoi, devi portare il fuoco. Non so come si fa. Sì che lo sai. È vero? Il fuoco, intendo. Sì che è vero. E dove sta? Io non lo so dove sta. Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo». Ancora una volta la storia ci mette davanti una tragedia. Abbiamo la responsabilità di non spegnere la speranza, di salvare il fuoco, di proteggere la vita specie quella dei più deboli, sapendo che dietro di loro c’è chi è disposto a sacrificarsi perché ciò accada. Il contrario del terrorismo è un amore così. Gesù stesso ci ha amati con un amore così”. (cfr. L’Osservatore Romano)

 

Foto di Copertina: fonte